giovedì 16 gennaio 2014

ODOIPOROS (di Marta Marinò)

A chi per un tempo sufficientemente lungo andò sputando sulle mortali convenienze e consuetudini, a chi soleva disprezzare l’attaccamento ad un luogo fisico e fuggiasco andava fuggendo gli uomini e i luoghi da essi abitati, è a costui che volgono il nostro sguardo e la nostra benevolenza: a colui il quale, tanto più disprezzava gli altrui modi, tanto più ne avrebbe voluti per sé.
Onde ci duole essere i narratori di colui il quale avuto riguardo solo per sé stesso, in realtà ne avrebbe avuto per il cosmo intero se solo costui non fosse rimasto orfano d’affetti troppo anticipatamente.
Orbene, risaputo è che si nasce tutti allo stesso modo e si muore ciascuno secondo la casualità, ma chiaro è tuttavia, come il cielo di maggio, che il destino comune a noi tutti, non rende più lieto chi in vita a tribolar maggiormente è chiamato da un destino infame.
Per l’appunto, questa è la storia di un tal dei tali che il caso volle chiamarsi Odoiporos, nome impronunciabile ai più, e ragion per cui taciuto spessissimamente.
Di natali incerti si sa è piena la storia degli uomini, ma non quella del nostro Odoiporos che sempre si crucciò non dell’incertezza dei natali, ma invero della certezza del suo discendimento, onde   prematuramente lasciò la casa natale dalla quale più verosimilmente fu meschinamente e bestialmente allontanato.
Che l’esistenza benevola ad alcuni, sia matrigna per tali altri è cosa che si impara in fretta, né per il vero averne discernimento rende l’animo più quieto, anzi ai più una collera e un’invidia tali suscita che si abbisogna di una grande fortezza di spirito o di una grande mitezza d’animo perché non si commettano atti predatori che rimettano in pari la bilancia sbilanciata dell’umana esistenza. 
Per la qual cosa, e per rimettere le cose un po’ al loro posto, presto Odoiporos si partì per il mondo in cerca di fortuna di cui la sorte gli aveva fatto difetto e dispetto.
Non staremo qui a narrare né il dì in cui si partì, né se di cotanta impresa Odoiporos fosse certo nell’animo suo, che sempre, si sa quello è mutevole  a chi non conosce la certezza di un nido sicuro e ospitale.

“Errabondo va colui che non ha casa e non ha affetti, ma sempre li cerca intimamente, pur disprezzandoli apertamente”.

Quantunque le gambe si trascinassero ormai pesanti e il fiato altrettanto lo era per il poco desinare, Odoiporos continuò la marcia per altri due giorni, che infiniti gli sembrarono per la durezza del cammino. 
Non ristoratori, né verdeggianti appaiono quei pascoli dove alle bestie è dato di sfamarsi e agli uomini è fatto divieto di sostarvisi, che la proprietà è sacra più della vita al pensiero dei più e chi stanco vi si posa nella speranza di trovarvi riposo, ben presto alzar le tende deve verso campi più inospitali da cui anche le bestie stanno alla larga.
E così veduta la mal disposizione del pastore, si allontanò Odoiporos in cerca di altro bivacco.
Se la fame incontra miglior resistenza, altrettanto non è per la sete, e nel mentre il giovane già credutosi morto s’era, arrivò a destarlo una pioggia tanto provvidenziale quanto insistente. 
-Ahimè, son solo e affamato!- esclamò Odoiporos e seppur solo lo era sempre stato, mai come allora aveva avuto così ben coscienza di tal condizione.
Il giorno volgeva ormai al termine e per quanto i morsi della fame lo facessero sussultare di dolore si addormentò stremato dagli stenti.
Il sole si inabissò all’orizzonte e la luna si levò con le stelle e tutt’intorno fu buio e chiaror di stelle.

La calura che aveva accompagnato Odoiporos nelle ore precedenti lasciò spazio ad un vento freddo che scendeva dall’altopiano per la qual cosa egli si strinse nelle spalle quanto più poté e raccolse le ginocchia al petto come quando  bambino si difendeva dai calci del padre.
Fu giusto un calcio che lo risvegliò qualche ora dopo, mentre immerso era in sogni di festosi banchetti e dissetanti bevande che gli venivano servite in grosse otri.
Ma il succo d’uva che s’accingeva a bere non sapeva più di uva e non versava più dalle otri, ma dalla sua stessa bocca che a causa del colpo ben assestato sputava sangue dal labbro inferiore.
Odoiporos, istintivamente e, inutilmente, diremmo noi, si coprì con una mano il viso e con l’altra il sesso, mentre la pioggia di calci e pugni continuò inesorabile e gratuita accompagnata da grasse risate miste a rantoli di fatica e quando i tre balordi non ne poterono più ed ebbero esaurito il piacere sadico che quell’attività gratuita gli aveva procurato se ne andarono ciondolanti per altre strade, non prima di aver abbondantemente ricoperto di sputi e di piscio il malcapitato al quale la notte aveva portato sventura.
Il pianto lo scosse forte come un terremoto scuote la terra e quando anche l’ultima lacrima fu versata il sonno e lo stremo presero il sopravvento e lo precipitarono in un altro sogno fatto non più di cibi e bevande deliziose, ma di tenebre e tristi figure di nero vestite che gli tendevano le braccia e gli chiedevano aiuto, ma ahimè, Odoiporos neanche per se stesso s’era mostrato d’aiuto e così voltate le spalle a quelle presenze oscure, riaprì gli occhi gonfi del pianto notturno e delle percosse prese a tradimento. Ma gli occhi non gli si aprirono a modo, che di un umore misto di lacrima, di una sostanza gelatinosa e incolore e di sangue si erano appiccicati e le palpebre erano gonfie e pesanti tanto che gli sembrò una fatica mortale tirarle su per vedere se il sole fosse già alto. E il labbro inferiore era ora simile ad una padella tanto era gonfio, cosicché se lo reggeva con la mano destra quasi avesse paura gli cascasse da un momento all’altro.

“Le notti sono dolci agli amanti e amare agli sventurati che cercano ventura, ma da sempre agli uni e agli altri non è negata la speranza che miglior fortuna s’accosti ad allietar ciò che lieto è già o che non lo è ancora.”

E con questa speranza nel cuore Odòiporos pregò per la prima volta il buon Dio, lo pregò così intensamente che gli parve di sentirlo e con una ritrovata fiducia si rimise in cammino quasi convinto che il peggio fosse già accaduto e che nulla di più infame lo attendesse d’ora in avanti.
Ma quanto ingenue siano le speranze di un uomo semplice non tarderemo a scoprirlo strada facendo per questi sentieri polverosi e tortuosi, irti di mille accidenti fatti di pietre dalla forma irregolare e spogli rovi allineati discontinuamente ai lati della strada intorno ai quali gli insetti meschini che si nutrono dell’orrido di ogni essere vivente ronzano accidiosamente in attesa di laidi bocconi da divorare.


“Odoiporos! Odoiporos che prosegui vagando per le pianure e le montagne, che hai fatto della terra il tuo giaciglio e della volta celeste la tua coperta, andrai lontano, e quando il mondo come tu lo conosci sarà terminato, un altro mondo ti apparirà e tu solo saprai in quel momento cosa fare… se accoglierlo o rifiutarlo… noi siamo ora, solo spettatori, tue le scelte, e tuo il discernimento della vita tua che hai deciso di rendere libera andando via di qui. Plaudiamo al tuo coraggio e chissà, forse alla tua incoscienza, di cui qualcuno potrebbe osare dirsi follia, ma noi che nascondiamo la nostra codardia sotto il falso nome di ragionevolezza, restiamo a guardare col fiato sospeso se la tua avventura porterà frutti dolci o amari e se il tempo della tua esistenza terrena non sarà passato invano, ma avrà lasciato da raccontare una storia degna d’essere narrata, allora noi soffioni o pisacan che dir si voglia, ci leveremo nell’aria infestando il mondo intero della tua storia e delle tue gesta di uomo qualunque colto da divina follia o da eccezionale curiosità per l’ esistenza tutta.”

di Marta Marinò



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